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Nadia Decima

Levità di piane venete
Nelle opaline nebulose che si sfrangiano spumose sulla radura, cispose palpebre d'occhi cerei di polle placide, gocce lattee  di brine addensate di vapori albini, filtra rilucente e cerulea la rarefatta volubilità di cieli disciolti in acquerelli di climi instabili, la venatura alabastrina di subitanei disvelamenti immersi nella tersa introspezione in cui precipita, specchiante, l'inganno labile di Narciso che si rimira nella castità aurorale di un diafano anelito liquido.

 

La prospettiva presbite di lontananze nitide scolora il dorso glabro di  sabbie asperse sulle venete piane d'onice su cui aleggiano aperti piumaggi d'angelo, serici cirri d'ovatta bagnati dal languido deliquio di distanze imprecisabili invase dal chiarore diffuso in cui Venezia celeste si allontana, di là dall'onda che la distanzia dalla penisola terrena, si maschera di sfarzosi paramenti di segreti palazzi, si staglia nel fulgore raggiante di sbiancati campielli, si avvolge di plumbei drappeggi veleggianti tra le quinte di arcane penombre lagunari.

Sfilano le delicate sospensioni aeree di stemperate suggestioni diluite dall'umidore finissimo di borotalco che cosparge di slavate "polveri d'acqua" le stilizzate  rappresentazioni di promontori essenziali e assoluti, il cui empito soave di levità insostenibili mantiene in bilico sull'evanescenza lirica di un paesaggio accennato, la serpentina fuggevole dell' orizzonte ideale, tratteggiato nella rifrazione di un'infinità capovolta, innalzato nell'intermezzo scenico dell'incipiente dissolvenza di un'incantata sparizione.