"In alto c'è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l'abisso
col fusto piegato a balestra "
Salvatore Quasimodo.
L’occasionale filologia del reperimento di originali manoscritti calligrafi di atti legali e notarili collazionati nella raccolta aneddotica di “vocatio in ius”, databili in gran parte nel primo novecento bolognese, prescelti per la pregevole perizia dello scrivano, impegnato nell’acribia di annotazioni ufficiali, si stanziano come impronta didascalica d’intercorse relazioni sociali sfociate in controversie civili che la pratica forense s’industria di dirimere con dotta logica di deduzione giuridica, che rende testimonianza di diatribe certificate.
L’erudita filigrana isagogica del lacerto cartaceo traspare gualcita nell’impasto rappreso dell’intonaco granuloso di sabbie grosse e polveri gessose, asciuga il legante bituminoso di lacche opacizzate dalle minerali incisioni segniche di graffiti seppiati, smussa la corrosione delle screpolature del craqueler da cui affiorano fondali parietali sottostanti, increspa la scrostatura farinosa dell'affresco che si sostanzia di ideali larghezze prospettiche rinascimentali, fin nella colta contraffazione di scheggiate myricae di immaginifici paramenti murari, archivolti di portali, iscrizioni di fornici, ornamenti di paraste, fregi di capitelli sottratti alla prassi documentaria di una archiviazione museale e restituiti alla scoperta vivida del ritrovamento archeologico, metaforica riesumazione di una memoria storica imprescindibilmente coesa e sommessamente celata perfino nell’ implosione della speculazione contemporanea che opera nel dissesto franante della sua negazione.
L'icona naturalistica istoriata s'incastona senza cedere alle suggestioni citazioniste come sovrapposizione a questo variegato pastiche di un raffinato papier collè nella riscrittura musiva di frammenti eterogenei restaurati dalla contaminazione semantica dell’intermittenza ipnagogica della reveriè vigile teorizzata da Bachelard, costituendo insieme il riferimento puntuale e l’indefinito onirico di una celebrativa e nostalgica adesione stilistica alla maniera dell’antico, inteso come apogeo di perfezione rappresentativa mitizzata dall'empito emotivo romantico del suo decadimento. Tramandare l’ologramma del dettaglio di una completezza perduta attraverso la sineddoche mimetica di una verità metastorica recuperata, attualizza il medium di un contingente anacronismo riproposto dal confronto tecnologico con l’autorità di una tradizione deperibile: la focalizzazione retinica della persistenza dell'immagine che si staglia nitida nel fotogramma digitale di una rielaborazione iterativa, non distorta dalla differenza, non copiata nella ripetizione, secondo la recente ipotesi di Deleuze, conferisce identità e autonomia alle argomentate meditazioni sulle sinestesie del deja vu nella sua traslata “serialità pittorica”.
La progressiva cancellazione della figurazione addensa di connotazioni uno spazio metafisico slargato nella rievocazione mnestica di un paesaggio visionario già caro al Proust della recherche, in cui la sottrazione apparente di simulacri verosimili assorbiti nella contrazione prospettica di una ennesima elisione di realtà, si moltiplica di stratificati enigmi esoterici allusivi di essenze presagite e prefigurazioni rivelate nella formula dell’“oratio sensitiva perfecta”, sancita dall'Aestaetica del Baumgarten.
Il superamento concettuale del disfacimento nichilista di una esasperata sperimentazione informale tesa al dominio materico del dato empirico, si capovolge in compenetrazione mistica, quando non addirittura nell'austerità claustrale della castigatezza del classicismo giansenista di Poussin, in quell'approccio misterico che scandisce la sacralità fenomenica della spazio liturgico della natura biblica di Giorgione, mutuata anche in parte dal pagano panteismo lucreziano del "De Rerum natura": sulla zolla cimiteriale in cui s’installa l’epigrafe del Novecento isterilito dalla grammatica dell’astrazione che estingue lo spirito, si squaderna il Libro ermetico sulla parola fatta carne, si radica e germoglia l'intuizione prepotente del Vero, il legno salvifico del dio vivente, quell'albero solitario e contorto, sognato in un tragico “notturno” da Quasimodo, che morendo rigenera la Terra di un nuovo Umanesimo.