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Giancarlo Zaffanella

Archeologia visionaria

 

La febbrile manipolazione istintuale di un veemente rapimento compositivo, concentrato nella pulsazione di un ritmo intimo che impone al manufatto la cifra stilistica di un tratto rapido e risoluto, imprime alla frastagliata sagoma antropomorfa di un modellato fluido e vorticoso, convulso e rappreso nell’immediatezza del dettato espressivo, la distorsione visionaria prodotta dalla corrente magnetica di impulsi sotterranei che scuotono la “terra ferma” dello scultore dal suo catatonico stato di quiete.

L’onda d’urto di una momentanea perturbazione sensoriale sgombra l’orizzonte speculativo dell’ispirazione che proietta sullo scenario livido delle macerie del millennio ipertecnologico, l’immagine vivida dello scavo intimista, del ritrovamento mnestico, della rivelazione animica di un patrimonio misconosciuto e negletto di reperti della saggezza ancestrale, fossili immaginifici dell’inconscio collettivo, atavismi archetipi della specie psichica, che emergono nella moderna ieromanzia di profetiche epifanie dello spirito, estratte a forza dalle viscere della materia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

La fisiognomica tragica di una moderna archeologia fantastica popolata di maschere orrifiche, di personificazioni mitologiche, di deità ferine, di zoomorfe entità demoniache, di mostruose apparizioni oniriche, costituisce il variegato continuum di un bestiario evocativo e sovrannaturale, in cui si rimescolano, in un sincretismo denso di attrazioni misteriosofiche, il culto filologico di un’arcaica ermeneutica dei fenomeni ed il rituale propiziatorio di un totemico esercizio divinatorio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Speleologo della stratificata miniera culturale occidentale, l’artista contrappone all’erosione morale della società dei consumi la perlustrazione ctonia del continente interiore, rintracciando tra le rovine della monumentale geologia del pensiero antico, il residuo materico di un’impronta metafisica, che solca la grassa zolla della sponda mediterranea, fertile mistura in cui sedimenta, macera, fermenta e si distilla la quintessenza sulfurea che impregna l’inquieto polimorfismo della coroplastica di Zaffanella.
 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

Il grottesco metamorfismo delle figurazioni egizie, percorso dalla insinuante venatura barocca di un altero gusto del meraviglioso, si forgia nell’eccedenza composita di generose espansioni gestuali e incisive connotazioni espressioniste, che affiorano sul dorso grezzo della scorza esteriore ma traggono impeto dalla matrice intrinseca di una sostanza numinosa, che interviene a  guidare la rappresentazione e  da cui propaga l’irradiazione di un potente afflato icastico, facoltà medianica che traspone in nitido simbolismo lirico la magmatica viscosità del nucleo creativo originario.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

Ripercorrendo a ritroso un plurimillenario esodo della ragione dalla sua principale funzione di autocoscienza diretta del proprio fondamento spirituale, che la deriva materialista ha condotto ad una aberrazione non più sostenibile, Zaffanella restituisce all’arte la competenza di stampo antroposofico di una delicata missione esistenziale, quella di  additare  il paradosso di una scienza delle cose morte, fondata sul paradigma conoscitivo del vuoto infinito e del Caso causante, tutta intenta all’indagine meccanica dell’inerte, che sostituisce il tempio con il laboratorio, e scambia il tecnico con il genio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Alla vera sfida intellettuale contemporanea indirizzata al superamento  della ridda relativista delle filosofie nichiliste, l’artista offre il contributo personale dell’attualizzazione di un’Atlantide di verità primitive, il recupero di un’ecosistema della mente che commisuri alla facoltà razionale le istanze della conoscenza emotiva, che orienti la vaga percezione animista del soprasensibile verso una compiuta gnosi della tradizione sapienzale,  vivificando il nesso perduto tra la casta effige della natura madre e il sottile mistero dell’atto demiurgico che la sottende, quel senso ultimo del  sacro che pervade le creature, già noto alle prime civiltà dell’uomo.