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Ezio Pirovani

Interludio

Il vigoroso carisma gestuale di una duttile impronta pastosa, di una grassa amalgama materica irrorata di tintura di gettito sanguigno e mescolata di magma rovente di vampa solare, sbozza gli spessori acuminati di chiazze plastiche screziate di ritocchi cremosi, leviga le crestate grane di corrugati rilievi rappresi nel lucore caramellato di schiarite  corrusche, che attenuano la sgargiante accentuazione cromatica di una figurazione espressionista contrastata di patetici sensi irrisolti, con l’empito soave che li solleva nella  mistica sospensione del riverbero di un’ardente aura aranciata, radente di barbagli di luminescenze purpuree, pulsante di stille palpitanti di nettare carminio.

La tortile fibra tragica di un agile temperamento lirico dissimulato nell' intensa caricatura di una vis teatrale di grottesche maschere fauviste deforma la fattezza e la postura di musicanti macilenti, basiti nella smorfia aspra  dell’interpretazione di tetri incantamenti sonori: infrange l'acustica sibilante del silenzio la tiritera di pifferai che soffiano alitanti melodie ipnotiche, che arpeggiano suadenti accordi di memorie melanconiche, pizzicano fragili corde di struggimenti emotivi, percuotono tamburi di angosce rumorose,  squillano trombe di psichico disagio, pestano tastiere di mestizie e stridono con archi di malessere nella parodia di bande sghembe cimentate nell'acuto parossismo cacofonico di un improbabile crescendo rossiniano.

Quando la parata concitata di spartiti assembrati di anarchiche biscrome, asincrona nel battere e levare di progetti falliti sul gong dei tempi scaduti, cede il tema all’interludio monocorde di rimpianti assorti su metronomi meditabondi, il timpano di esistenziali macerazioni introspettive accompagna il solfeggio dei soliloqui di sciatti bohemien, ingolfati nella pausa ritmica di quella  temperie di mezzo che soffocava di cappe fumiganti le nebulose serotine di Mont Martre scavate di taverne torbide dall’occhio lucido di Toulouse-Lautrec: l’armata brancaleone di goffi orchestrali in licenza dal carosello peripatetico di squallide performances a gettone, cabarettisti logorati da felliniane divagazioni ludiche da carrozzone orfico di cartapesta, burattini dismemori di filastrocche ingenue che rallentavano il passo dell'ultimo girotondo sul carillon della giostra delle illusioni acerbe, attendono trepidanti la scaturigine trascendente di una celeste armonia trasfigurante, che ridisponga le note in ordinati pentagrammi di coscienze e li diriga come coro unanime verso l’ouverture che applica ogni sinfonia di strumento umano all’esecuzione di una divina concertazione.

Le stipate composizioni animate dall'esuberanza  di un’ancestrale naturalità, già cara al Van Gogh del più sereno vitalismo esaltano le alzate di fregi ubertosi traboccanti di carpi premuti fra acini e pampini nell’alveo concavo di un guscio stretto di vasellame offerente, cerimoniale sacello ornamentale di grembo ovale mandorlato che eleva il trofeo fruttato di messi succulente ricolmo di pomi turgidi nell'ebbrezza della sagra festante di una rubiconda coltura decorativa dell’eccedenza, propria a quel ridondante barocco mediterraneo radicato nella passione antica di un bacchico rosso pompeiano.

 

 
 

Nella monocroma rarefazione scenica di effimeri apparati dell’apparenza in cui sosta la rosata basilica dell’assenza, notturna evanescenza onirica di speculari rifrazioni interiori, fantasma volatile nell'alea del pelago lagunare avvolto di spumose velature ondivaghe, tremola, sublime effigie di architettura ideale, l’edificio spettacolare del trionfo monumentale di favolose venezie, affiorate all'apice del gorgo obnubilante che le sommergerà nel sortilegio di un oscuro oblio di grazie stilistiche obsolete e soluzioni prospettiche dismesse.

Nell’algido pervinca che umetta di brine marine il crepuscolo sul faro bretone, nell’indaco madreperlato che sovrasta la briosa vivacità di facciate olandesi, nell’iridescenza cerulea irradiante una grata solatia mattutina sul quieto villaggio tedesco, un‘effusiva “joie de vivre” matissiana sopisce un attimo la furia fiammeggiante di cadmio crepitante che incendia di lapilli la  brace accecante di spianate italiche riarse.