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Maria Pia Contento

Maschere di palazzo

La grottesca esibizione di esasperate fisiognomiche caricaturali nei costumati vestimenti di ricorrenti tipizzazioni sociali anima le quinte pavesate delle trame di palazzo, il proscenio delle relazioni gerarchiche dell’intrigo narrativo delle vicende cortigiane, percorso dalla verve teatrale di personaggi pirandelliani personificati, stereotipati caratteristi scritturati dalla fabula incerta del fato, attori debuttanti nella rappresentazione pubblica di se stessi in un dedalo psichico d’identità complesse risolte in pieces di finzioni realiste. Il parodico espressionismo di maschere contrastate di tonalità cromatiche vivaci, spazza il sostrato tetro di polveri brunite depositate su fondali scenografici campiti di impasti saturi di convenzioni cristallizzate, accende la ludica canzonatura di miscele di pigmenti esageratamente sgargianti che si smerlano in grafia mimica di tracce segniche di sembianti, figuranti ricercatamente approssimativi, che occultano il connotato antropologico di quel physique du role, riconosciuto e contrassegnato come orpello di censo e prescrizione di status.

Madamigelle incipriate e sguattere deformi, ciambellani bardati e sgualciti palafrenieri, concubine guarnite di falpalà nei bodoir, e ancelle smunte in stinti grembiali di lavanderie, inamidati baccellieri agghindati di blasoni e brache sudicie di garzoni di cucina, mercanti loquaci e mendicanti lamentosi, consiglieri melliflui e rozzi carcerieri, dignitari docili e ribelli galeotti, facoltosi possidenti e contadini cenciosi, osti dall’epa rigonfia di crapule pantagrueliche, paggi coi menti imberbi intesiti in rigide gorgiere, tutti indistintamente obbediscono al capriccio di una sorte bendata, dispensatrice di contrapposti natali che perpetuano la dinastia millenaria della discriminazione di classe tra la pompa superba di feudatari altezzosi e l’umile compiacenza di servili vassalli.

Folleggia nella gozzoviglia popolaresca impregnata di verace trivialità grossolana e caustica irriverenza plebea, l’icastica sarabanda dell’accaparramento del privilegio, la prosopopea tragicomica di regali piccinerie imparruccate, di aristocratiche miserie di iniquità coronate, che ammantano di gretti pregiudizi l’apparato estetico della disuguaglianza economica, tessono l’arazzo di un “medioevo” inveterato e metastorico, irriso nell’improvvisata boutade esilarante della commedia dell’arte goldoniana, compianto nei timbri patetici intonati nelle arie liriche del melodramma verdiano.

La performance giullaresca di arrendevoli “rigoletti” moderni, cantastorie imbeccati dai componimenti di trovatori asserviti, menestrelli incantatori che intrattengono ventagli vibranti e monocoli lucidi con studiate ciarlatanerie di provetti saltimbanchi, tra arguzie salaci di svelti calembour e destrezza agile di acrobatiche piroette circensi, si interrompe sulla risata acre e sulla smorfia innaturale di pagliacci forzati in divise carnascialesche da parata adulatoria commissionata, da giostra semiseria di travestimenti pagati a cottimo dalla macchina spettacolare del consenso ideologico che fabbrica con stratagemmi riproducibili la convincente buffoneria di un’acquiescente adesione all’etica conveniente del regime.