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Carmen Viro

La caduta dei giganti

La conversione dell’artificio prospettico dell’impalcatura strutturale della visione mimetica in approfondimento introspettivo della percezione di uno spazio intimo, in cui si inscrive e si delinea la geografia psichica del sentimento tragico dell’esistere nel mondo, erompe veemente nell’aggressiva teatralità di maschere dolorose,  scavate dalla brutale deformazione dei volti emaciati e spigolosi, dei lineamenti marcati e taglienti, che si stagliano imponenti nella poderosa ritrattistica espressionista di Carmen Viro.

Situata nel solco di una feroce critica antimoderna agli eccessi di un consumismo materiale e morale, l’amara contestazione della giovane artista siciliana, si rivolge alla stessa civiltà alienata, dismemore dei valori intrinseci della tradizione su cui è fondata, adusa all’abuso delle cose e delle persone, responsabile oggi del dissesto economico mondiale, a cui Kirchner per primo aveva voluto esibire agli albori del secolo scorso, la sagoma desolante della sua umanità deturpata, immersa nell’angoscioso lividore di una conflittualità muta, nella lacerazione irrisolta di quel penoso isolamento che esplode nell’urlo disperato di Munch. Dalla imprescindibile lezione fauvista, che individua la costruttività intrinseca della potenzialità cromatica, atta a plasmare la materia concreta dell’immagine demarcata dall’incisività segnica del tratto nervoso,Viro trae spunto per amplificare la suggestione evocativa delle tinte acide che associate agli effetti di saturazione di subitanee accensioni contrastanti, producono lo scarto parodistico di una degenerazione somatica condotta fino all’esasperazione estrema di una grottesca forzatura caricaturale.

L’efficace disarmonia di questa “estetica del brutto”, appare tuttavia lontana da una irriverente intenzione dissacratoria,  sembra assumere piuttosto il connotato di una più ampia rivendicazione dell’autonomia anticonvenzionale dell’esperienza artistica, sospinta dall’immediatezza volitiva dell’impulso espressivo verso una convinta emancipazione formale dello stile che risponde senza mediazioni razionalistiche all’urgenza dell’ empito emotivo riscattato dal limite censorio dell’apparenza di realtà e tradotto in spontanea esaltazione della carica istintuale primitiva. L’intensità vibrante di una viscerale relazione con la linfa vitale del pigmento assoluto, si propaga nella larga striatura fluida, disciolta in rivoli lucidi di materia liquida, che colano pulsanti per rapprendersi sull’esile screpolatura cartacea fitta di increspature fragili corruganti la sbavatura pittorica, resa compartecipe dell’insinuante sensazione di caducità e deperibilità che pervade l’arte concepita nelle dinamiche del contemporaneo.

D'altronde la scaturigine aprioristica della pura potenza creativa, forza animica originaria che seduce l’intelletto coinvolto nel libero gioco kantiano delle sue facoltà, non può manifestarsi nel concreto agire compositivo del soggetto, se non attraverso la fertile contaminazione con il dato personale del proprio contesto storico, che ne rende fruibile l’universalità, come si evince infatti dal contatto diretto con lo spasmo inquieto che percorre il gigantismo immobile dei personaggi attoniti di Carmen Viro, condannati alla fissità nichilista di una condizione permanente di cecità irredenta, quel coma irreversibile della coscienza che preannuncia la deriva decadente del relativismo morale.